È corretto intestare il marchio aziendale alla persona fisica?
Da alcuni mesi sta imperversando nei social professionali un video molto accattivante in cui un esperto di ottimizzazione fiscale invita le imprese titolari di marchi a valutare l’intestazione ad una persona fisica: verosimilmente il socio di maggioranza, nel caso di imprese collettive, o il titolare dell’impresa, nel caso di imprese individuali.
Lo schema sarebbe essenzialmente questo: la persona fisica registra o trasferisce il marchio in capo a sé e poi lo cede in utilizzo all’impresa che gli corrisponde un compenso sotto forma di royalty.
Siccome la royalty viene tassata nel nostro sistema come reddito diverso essa non sconta la contribuzione previdenziale. Il che garantisce al titolare del marchio un vantaggio economico immediato dato appunto dal risparmio di quei contributi previdenziali che invece verrebbero applicati ad un compenso percepito nelle forme abituali (i.e. reddito da lavoro autonomo, lavoro dipendente, compenso per amministratore, etc.).
Alcuni dei nostri clienti, dopo essersi consultati con i propri commercialisti, ci hanno contattato chiedendoci di registrare o addirittura trasferire il marchio ad una persona fisica con l’obiettivo di conseguire le utilità offerte dallo schema poco sopra descritto.
Non sono un esperto fiscalista e non mi addentrerò nell’analisi dei vantaggi offerti sotto questi profili dall’intestazione del marchio alla persona fisica e correlata retrocessione in licenza all’impresa dietro pagamento di una royalty.
Vorrei invece svolgere alcune brevi considerazioni sul piano del diritto dei marchi e, più in generale, dei diritti di proprietà industriale e intellettuale.
Il messaggio che vorrei lanciare è che le legittime esigenze di ottimizzazione fiscale dovrebbero armonizzarsi non solo con le norme in materia di acquisizione dei diritti di proprietà industriale ed intellettuale ma anche con la realtà commerciale nel cui contesto il marchio viene utilizzato dall’impresa.
La regola aurea in tema di marchi di impresa e che essi dovrebbero essere registrati dal soggetto che li usa e che nel tempo costruisce valore su di essi.
Ovviamente è fatta salva la possibilità di utilizzarli grazie alla licenza di un altro soggetto, a patto tuttavia di disciplinare nel modo fiscalmente corretto la corresponsione della royalty, da un lato, e il sostenimento delle spese di registrazione e di mantenimento, dall’altro lato.
Insomma, l’uso in licenza da parte dell’impresa può andar bene se le spese di registrazione e/o mantenimento sono in capo al licenziante persona fisica titolare del marchio o se, nel caso in cui siano in capo all’impresa licenziataria, se ne tenga conto nella determinazione delle royalty con una chiara previsione contrattuale al riguardo.
Sotto il profilo dell’opportunità dell’intestazione alla persona fisica il discorso è più articolato e occorre distinguere.
Vi sono imprese individuali in cui la persona fisica è l’impresa e l’impresa è la persona fisica. Volendo individuare un esempio emblematico in cui un’impresa individuale è in grado di creare grande ricchezza su di un segno distintivo come il marchio, si pensi alle celebrity dello sport o dello spettacolo.
In questi casi generalmente non vi sono grosse criticità nell’intestare il marchio alla persona fisica perché si tratterà quasi sempre di un segno distintivo certamente riferibile alla sola persona fisica. Sia per quanto riguarda la titolarità, originaria o derivata, sia per quanto riguarda il valore costruito attraverso i suoi successi sportivi o artistici.
Nell’esempio della celebrity non vi sono infatti rispetto al nome / marchio interessi o diritti di terzi da salvaguardare o da non violare.
Diverso è il caso dell’impresa collettiva ove il marchio è generalmente riferibile all’impresa stessa tanto sotto il profilo della titolarità quanto sotto il profilo del valore generato dal suo utilizzo nel commercio.
Pertanto, nel caso dell’impresa collettiva lo schema di ottimizzazione fiscale descritto all’inizio dovrà essere valutato con attenzione prima di essere applicato.
E questo, non solo perché il marchio, soprattutto se figurativo, potrebbe essere già un asset dell’impresa, come per esempio accadrebbe nel caso di un marchio disegnato da un dipendente o da professionista esterno su commissione dell’impresa. Ma anche perché un marchio già in uso e con un determinato valore – sebbene non rappresentato in misura congrua nello stato patrimoniale – non potrebbe essere evidentemente trasferito a costo zero dalla società alla persona fisica.
A maggior ragione le cautele dovranno essere adottate nel caso di imprese collettive che vedono la presenza di soci con quote paritetiche o comunque di rilievo.
Registrare o spostare il marchio dalla società alla persona fisica, anche se si tratta della persona più influente all’interno della compagine sociale, certamente non sarebbe un’operazione neutra dal punto di vista degli altri soci.
Infine, l’intestazione del marchio alla persona fisica potrebbe essere vista negativamente da potenziali nuovi soci, investitori o istituti di credito nella misura in cui la ricchezza creata dall’impresa sul marchio ricadrebbe sulla persona fisica che è formalmente titolare dello stesso, oltre alla corresponsione della royalty.
Insomma, va bene l’ottimizzazione fiscale ma con un’attenta valutazione anche dei profili riguardanti il diritto dei marchi e della proprietà industriale e intellettuale.
Andrea De Gaspari